#Commedia Teatrale
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Bello vedermi sul palco in prima fila Sono quella vestita di rosso
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“La Strana Coppia” con Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia al Teatro Alessandrino (Alessandria)
Venerdì 20 dicembre, una commedia esilarante porta sul palco il genio di Neil Simon con una coppia d’eccezione.
Venerdì 20 dicembre, una commedia esilarante porta sul palco il genio di Neil Simon con una coppia d’eccezione. Un classico intramontabile al Teatro Alessandrino Venerdì 20 dicembre, alle ore 21, il Teatro Alessandrino di Alessandria ospiterà una serata di puro divertimento con “La Strana Coppia”, la celebre commedia di Neil Simon, interpretata dagli straordinari Gianluca Guidi e Giampiero…
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Platee Sconfinate
Chi ha frequentato il Liceo Classico, probabilmente, ricorderà una versione tratta da un testo di Plutarco dal titolo Il Teatro di Euripide salva gli Ateniesi prigionieri a Siracusa. Si racconta infatti che dopo la disfatta, inaspettata, dell'esercito ateniese giunto in Sicilia per conquistare le colonie dell'Isola, i prigionieri guerrieri vennero stipati nella latomie: cave di pietra prima, furono poi "convertite" a mega carcere per le centinaia di prigionieri. Fredde d'inverno e torride d'estate, essere imprigionati nelle latomie equivaleva a una condanna a morte: i prigionieri ateniesi furono lasciati morire di fame e di stenti, senza alcuna possibilità di fuga. Plutarco racconta però che i Siracusani, popolo colto e ricco, "amavano Euripide più di tutti gli altri Greci delle colonie" dando ristoro, o addirittura liberando, i guerrieri che ne conoscevano a memoria qualche brano. I sopravvissuti, narra l'aneddoto, quando fecero ritorno a casa, andarono a ringraziare persino il grande drammaturgo.
Questa vicenda ha una parte vera e una falsa: la vera, è che i prigionieri ateniesi davvero morirono di fame nelle latomie di Siracusa. La falsa è che l'aneddoto, divenuto celeberrimo, è appunto falso, e prima di Plutarco ne scrisse uno simile un biografo di Euripide, Satiro di Callatis, autore di molte biografie, quasi tutte perdute, ma di cui è rimasta una parte di quella di Euripide. Tuttavia il nostro Satiro è famoso principe del Metodo Cameleonte, dal nome del peripatetico Cameleonte di Eraclea, che iniziò a scrivere biografie basate a pure combinazioni e deduzioni, ai pettegolezzi e alle cronache scandalose della commedia, e al romanzesco e al leggendario (che non vuol dire che sia sempre fonte inattendibile, ma che va presa con non una ma tre pinze).
Eppure questa leggenda ha ispirato un filologo libano-irlandese, Ferdia Lennon, per scrivere un romanzo, che ho amato tantissimo, che tramite il Mito affronta situazioni davvero profonde, attualissime, usando una scrittura vivace, elettrica e piena di soprese.
Lennon immagina che due vasai disoccupati, il brillante Gelone e Lampo, zoppo e frugale, presagendo che la sconfitta di Atene possa portare alla perdita del grande patrimonio culturale della stessa, si mettano in testa di fare una rappresentazione teatrale con gli atenesi prigionieri nella latomie. Ma non una cosa qualsiasi, bensì un pastiche tra Medea e Le Troiane, le due tragedie leggendarie di Euripide, opere che furono rappresentate la prima poco prima della Guerra del Peloponneso nel 431 a.C., la seconda ebbe la prima ad Atene nel 415 a.C., proprio pochi mesi prima della disfatta di Siracusa. Il progetto è già arcigno, dato lo stato cadaverico degli Ateniesi prigionieri, delle pressioni dei Siracusani e dalle difficoltà nell'allestimento, ma con una serie di imprese al limite dell'eroico, i nostri riescono a farsi fare i costumi, le maschere, le scene e mettono su lo spettacolo. Non vi dico di più, perchè la storia va avanti e di molto, e spero di incuriosirvi con questi altri aspetti per andare da soli a leggere come va a finire.
Innanzitutto la lingua di Lennon, resa magnifica dalla traduzione di Valentina Daniele: peculiare per ogni protagonista, ricca di immagini potentissime, a volte aulica a volte sporca, le invenzioni di traduzione (gli aristo, per definire le classi ricche, o l'uso del mi' ma', mi' pa' per definire colloquialmente i genitori) rende la lettura piacevolissima. La costruzione dei personaggi, soprattutto i principali, il retto e saggio Gelone contro lo spirito intraprendente, al limite del furbesco, di Lampo. Le metafore che quell'impresa offre: il rapporto con l'altro, il ruolo del ricordo, la guerra e le sue conseguenze, persino il ruolo e la potenza dell'Arte come linguaggio universale. Ne esce fuori un libro gioiello, edito tra l'altro da una casa editrice, NN, che nella quarta di copertina ha questo passo: In questo libro c'è un Uomo Nudo. Ciò vuol dire offrire ai lettori storie di uomini che si concepiscono diversi e lottano per questa diversità, lontano da modelli e maschere di padri e pari. C’è, in sostanza, la volontà di stimolare una riflessione collettiva sul maschile, quindi quando troverete questo segnale in copertina, sapete a cosa state per andare incontro.
Che è un ulteriore buon motivo per leggere un libro che mi ha affascinato come pochi.
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⋆˙⟡ recensione: la diva julia - w. somerset maugham
Inghilterra, primi anni del Novecento. L’affermata attrice teatrale Julia Lambert comincia una relazione clandestina con il ragioniere del teatro in cui lavora, di proprietà del marito. Lei si convince che sia una tresca temporanea, in cui i sentimenti non sono coinvolti, ma presto si rende conto che questo giovane ragioniere, di carnagione un po’ troppo pallida e decisamente troppo magro, è riuscito a farla innamorare nuovamente.
L’amore, un sentimento che l’aveva trasportata fino alla nascita del figlio e che era sicura di provare per suo marito, Michael – l’uomo più bello e modesto d’Inghilterra, come non si stancava mai di ripetergli. Il suo fascino composto e elegante l’aveva lasciata senza fiato fin dalla prima volta che l’aveva visto, sul palco, anche lui come attore. Gentile com’era, aveva deciso di mettere da parte la sua carriera teatrale per poter fare emergere Julia e fondare una compagnia insieme – lei non aveva mai recitato così bene prima che fosse lui a dirigerla, e si sentiva di amarlo più che mai. Poi con la guerra e dopo il parto, qualcosa cambia in Julia: Michael non è più il ragazzo modesto che l’amava talmente tanto da sacrificare la propria carriera, ma diventa un uomo snob per cui non prova altro che fastidio. E, ciò nonostante, gli rimane fedele per venti anni – episodi fugaci di divertimento non potevano certo essere considerati come tradimento, giusto? – fino a quando la fiamma dell’amore non si riaccende grazie a questo giovane riccioluto che la conquista con un'umile tazza di tè.
In La diva Julia, W. Somerset Maugham dipinge un quadro psicologico magistrale della sua protagonista – o come piace chiamarla a lui, “eroina” ��� di questo appassionato romanzo. Comprendiamo il suo stato d’animo grazie alla sua mimica, che è spesso accompagnata da parole che vogliono dire il contrario di quello che prova. Da attrice provetta, la migliore in tutta l’Inghilterra, nasconde le sue emozioni e non si lascia il tempo per poterle elaborare: utilizza il teatro anche nella vita reale, mascherando il nucleo della sua anima per poter continuare a interpretare il ruolo dell’attrice famosa, della madre amorevole, dell’amante appassionata. Viene spontaneo simpatizzare per Julia, perché impariamo a conoscerla nella sua intimità, perdonandole gli sbagli e capendone il forte disagio interiore, che lei non ammette mai a sé stessa. Molte volte ci sentiamo presi da un moto di sconforto e vorremmo quasi poter intervenire per proteggerla e avvisarla di non commettere lo stesso errore due volte; e forse anche l’impotenza nel cambiare la sua sorte ce la fa apparire in una luce ancora più drammatica.
Allo stesso tempo, tuttavia, il lettore deve stare attento a non farsi coinvolgere troppo per evitare di perdere la sua imparzialità: la prosa scorrevole ci induce torpidamente a condividere le opinioni dell’eroina, che trova sempre un modo per giustificare le sue decisioni ingiustificabili.
«La gente non cerca ragioni per fare quello che desidera» rifletteva. «Cerca solo scuse».
Alla fine Julia sembra vincere: appartata in un angolino di un ristorante, lontana dagli occhi indiscreti della folla, si convince che la vita reale non è altro che teatro e che la vita vera stia sul palcoscenico, davanti al pubblico. Maugham costruisce così il romanzo più perfettamente tragicomico: la grande attrice comica diventa, senza rendersene conto, la protagonista di uno struggente dramma esistenziale in cui i ruoli interpretati vanno a racchiudere, come matriosche, l’unicità della persona, nascondendola. Il tentativo grottesco di rifiutare la realtà dei fatti aggiunge una vena profondamente tragica e contemporaneamente comica alla narrazione.
In questo Maugham, con le sue doti di romanziere impeccabile, sembra farsi erede del Socrate del Simposio, riuscendo a comporre allo stesso tempo una divertente tragedia e un’amarissima commedia. Nel leggere La diva Julia, ci viene ricordato con forza che l’esistenza non è solo comica o tragica, ma che entrambi i poli ne caratterizzano lo scorrere inesorabile fino all’ultimo momento.
Mars.
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LA VITA DI UN ATTORE
La mia vita in questo momento sembra la vita di un attore che si alterna tra palcoscenico e retroscena. Quando l’attore si trova sul palcoscenico sorride, urla, piange a seconda di quello che è il suo ruolo, in base a ciò che viene richiesto, anche dal pubblico stesso. Insomma, sul palcoscenico finge. Se decidesse di mettersi a ballare una bachata nel mezzo di una commedia, quale sarebbe la reazioni degli altri attori, dei registi o del pubblico? Sarebbero tutti sorpresi, pieni di vergogna e imbarazzo(nel caso dei primi due) o addirittura indignati e arrabbiati (nel caso del pubblico) di aver pagato per uno spettacolo che non si adegua a ciò che erano le loro aspettative. E se quell’attore non ha mai voluto fare quel ruolo comico, quel ruolo per il quale si è dovuto impegnare tanto e che, magari, gli stava sullo stomaco. Magari si è dovuto adeguare, perché rischiava di perdere il posto nella compagnia teatrale a cui tanto ambiva. Ha dovuto fingere. Quando invece quell’attore è nel retroscena può incazzarsi con gli altri attori o con il regista che hanno dato il ruolo del comico a un altro, che puntualmente recita meglio di lui. E può tornare a casa a chiedersi se ha senso continuare a fare delle prove per uno spettacolo a cui non voleva nemmeno partecipare. E quindi immagina come sarebbe bello organizzare un proprio spettacolo dove è soltanto lui a parlare, più precisamente a recitare un monologo dove trasforma tutta la sua frustrazione per tutti quei ruoli, quelli spettacolo al quale avrebbe rinunciato, in parole, in arte che magari qualcuno potrebbe anche ascoltare con piacere. Ma la fantasia dura poco perché in realtà a nessuno importa cosa accade nel retroscena di quel teatro, dove gli attori si mostrano nelle loro imperfezioni, dove sono visibili gli sbagli, dove tutti non fanno altro che strillare e avere fretta di trasformarsi in qualcosa di diverso dalle loro personalità. E poi lo spettacolo ricomincia, a nessuno importa più nulla di quello che è successo negli istanti prima dell’apertura del sipario. Tutta l’attenzione è concentrata sul mostrarsi perfetti ed essere pienamente nella parte del personaggio rappresentato, tanto a nessuno verrà mai in mente di chiedere a quell’attore come si sente a recitare quella parte, ciò che importa è quanto lo spettacolo può risultare gradevole agli occhi degli spettatori.
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ieri ho finito di ascoltare cuore di cane, molto molto bello, tra oggi e domani penso finirò anche uova fatali. mi chiedo se non sia il momento giusto per provare a rileggere anche il maestro e margherita nei prossimi mesi. ieri sera ho continuato a leggere la commedia di fonvizin che mi piace veramente tanto, la trovo geniale e molto divertente, sono contenta di aver scelto quest'opera a occhi chiusi e anche forse un po' con le spalle al muro, ok, ma a questo punto mi dispiace solo non conoscere abbastanza bene il russo da vedere e capire a fondo la rappresentazione teatrale. oggi comunque finalmente è l'ultimo giorno di orari rigidi di studio e stress e pensare che da domani posso respirare un po' mi sembra una bugia 🤔
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Tra attori e burattini
Teatro e politica, come gli antichi sapevano, sono strettamente legati ed è improbabile che la scena teatrale sia viva quando quella politica muore o si eclissa. Eppure, in un paese in cui la politica sembra ormai fatta soltanto da mummie che pretendono di dirigere la loro esumazione, è stato possibile nei giorni scorsi assistere in un piccolo teatro veneziano a una rappresentazione così piena di vita e di intelligenza che gli spettatori – come dovrebbe sempre avvenire a teatro – ne sono usciti più consapevoli e quasi fisicamente rigenerati. Un simile miracolo non è avvenuto per caso. Piermario Vescovo, nella sua esemplare conoscenza della storia del teatro, è lucidamente ricorso a una tradizione apparentemente minore, ma in verità, soprattutto in Italia, certamente maggiore, quella dei burattini. Ma lo ha fatto – e qui è la novità – coniugando la presenza del corpo di sei attrici a quella dei burattini che esse impugnano e muovono, in modo che tra i vivi e i morti, tra i corpi imponenti delle attrici che recitano e quelli sparuti ma non meno presenti dei burattini avviene uno scambio incommensurabile, in cui la vita trascorre incessantemente nei due sensi e non è chiaro alla fine se siano le attrici a muovere i burattini o questi a scuotere e animare le attrici. Nunzio Zappella, uno degli ultimi grandi guaratellari napoletani, mostrando il suo piccolo, ormai logoro Pulcinella ha detto una volta: «è mio padre!». Non si potrebbe forse definire più efficacemente il mistero che si compie fra il burattinaio e il suo fantoccio. Ma Vescovo, innestando genialmente il bunraku giapponese sulla tradizione della commedia italiana, ha fatto di più: ha trasfigurato un testo minore di Goldoni (l’Incognita – che non era stata più rappresentata dopo la morte dell’autore) in qualcosa di provocante e ferocemente attuale. La lezione che se ne può trarre è che lo sfacelo di ogni istituzione non soltanto politica che stiamo vivendo non ci rende necessariamente impotenti: è sempre possibile trovare nel passato e custodire anche nelle condizioni più avverse il seme vernalizzato che al tempo opportuno non mancherà di dischiudersi.
Giorgio Agamben, 19 novembre 2024
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“Juzga a un hombre o a una mujer por lo que es capaz de hacer por los demás, no por lo que se propone sólo con palabras”.
-Darío Fo
Premio Nobel de Literatura 1997
Nació el 24 de marzo de 1926 Dramaturgo y actor italiano, Premio Nobel de Literatura en 1997. Ignorado por las historias de la literatura o mencionado lateralmente, las obras de este autor aparecen disimuladas por su actividad como uno de los más completos hombres de teatro de su país. De hecho, para muchos críticos, Fo es esencialmente un comediante. Sin embargo, este excelente intérprete y director escénico supo fundir con enorme habilidad diversas tradiciones textuales: el humor de las vanguardias, la comicidad de la commedia dell´arte y la sátira política. Una de sus obras maestras, Misterio bufo (1969), un conjunto de monólogos contra la sociedad y la Iglesia, contiene las claves de su magisterio teatral en toda Europa. Cada secuencia está tramada con un ritmo y una tensión dramática y cómica preestablecidas, a las que la improvisación se debe ajustar.
Debutó con variedades satíricas de gran impacto moral, de las que era coautor junto con Franco Parenti -Il dito nell'occhio (1953) y Sani da legare (1954)-. Entre 1959 y 1967 hizo representar las Farse, dirigidas a un público burgués, en salas tradicionales, que de todos modos reflejaban, por medio de la estructura extravagante de la historia, de su ritmo agitado, de la inesperada explosión de efectos escénicos, una realidad cultural, costumbrista o, en ocasiones, política distorsionada o anormal -Isabela, tre caravelle e un cacciaballe (1963) o La signora è da buttare (1967)-.
Tras adherirse a las inquietudes juveniles de finales de los años sesenta, Fo optó por circuitos teatrales alternativos, y sus Commedie, de las que ha escrito ya varios volúmenes, significan una agresión cada vez mayor a la realidad del país, favoreciendo antes, durante y después de su puesta en escena, una discusión abierta con el público acerca de los temas no resueltos de la gestión política de la democracia.
Otra de sus obras más representadas, Muerte accidental de un anarquista (1971), estrenada en Milán por el colectivo La Comune, corroboró la percepción que Fo tiene de sí mismo: un juglar decididamente subversivo. Las consecuencias de sus posiciones políticas no fueron agradables: su mujer, Franca Rame, fue secuestrada por grupos fascistas y el Vaticano lo calificó de bufón, opinión que mantuvo incluso después del galardón sueco.
Distanciado del Partido Comunista a partir de los años 1980, estrenó Trompetas y frambuesas y Escarnio del miedo en 1981, inspirada en el secuestro de Aldo Moro. Entre sus obras más conocidas también figuran El dedo en el ojo (1953), Séptimo, roba un poco menos (1964), Razono y canto (1972), No se paga, no se paga (1974).
Ocho monólogos
Darío Fo
[Fragmento]
"No, no, por favor… por favor, estate quieto..., así no me dejas ni respirar... Espera... Claro que me gusta hacer el amor, pero con un poco más de..., ¿cómo diría yo?... ¡Que me estás aplastando! Quítate..., ¡basta! Me estás mojando la cara... ¡No, en la oreja no! Sí que me gusta, pero es que pareces una Moulinex, con esa lengua... Oye, ¿pero cuántas manos tienes? Déjame respirar... ¡Qué te levantes te digo! (Se incorpora lentamente, como quitándose de encima el peso del cuerpo del hombre. Se sienta frente al público.) ¡Por fin! Estoy empapada en sudor. ¿Para ti esto es hacer el amor? Sí, claro que me gusta, pero preferiría que hubiera algo más de sentimiento... ¡No estoy hablando de sentimentalismo! Cómo no, ya sabía que me saldrías con lo de que soy una cursi romántica y antigua...
Claro que me apetece hacer el amor, pero a ver si entiendes que no soy una de esas maquinitas que les metes unos duros y se les encienden las luces, tun, tun, trin, toc, toc... ¡drin! Mira, yo, si no se me trata bien, me bloqueo, ¿comprendes? ¿Será posible que, si una no se coloca de inmediato en una postura cómoda, falda y bragas fuera, piernas abiertas y bien estiradas, se vuelve una estúpida acomplejada, con los traumas del honor y del pudor, inculcados por una educación reaccionaria-imperialista-capitalista-masónica-católica-conformista-y austrohúngara? ¿Que soy pedante? Y una tía pedante os pone muy nerviosos, ¿verdad? Es mejor la mema de risita erótica... (Ríe por lo bajo, en plan erótico-tirado.) ¡Venga, hombre, no te cabrees! No, no estoy ofendida. Está bien, hagamos el amor... (Vuelve a tumbarse de perfil al público.) Y pensar que cuando quieres sabes ser tan dulce..., ¡casi humano! ¡Y un auténtico compañero! (Lánguida, con voz soñadora.) Contigo puedo hablar de cosas que normalmente no sé ni decir... Cosas incluso inteligentes..., eso es, ¡tú consigues que me sienta inteligente! Contigo me realizo... Y además, tú no vienes conmigo sólo porque te gusta cómo hago el amor..., y además, después te quedas conmigo, y yo hablo, y tú me escuchas... (más y más lánguida) ...y yo te escucho… hablas, hablas, y yo... (Se comprende que está a punto de tener un orgasmo por el tono de voz.) ...y yo... (Cambia de tono: de pronto, realista y aterrada.) Por favor, para... ¡que me quedo embarazada! (Implorante.) ...para un momento... (Perentoria.) ¡¡¡QUIETO!!! (El hombre por fin se ha parado.) Tengo que decirte algo importante. No me he tomado la píldora... No, es que ya no la tomo, porque me sienta mal, se me ponen unas tetas como la cúpula de San Pedro... Está bien, sigamos, pero por favor ten cuidado... No olvides lo que ocurrió aquella vez..., ¡cómo lo pasé de mal! (Cambia de tono.) Sí, ya sé que tú también lo pasaste fatal, pero yo más, si no te importa. Sigamos, pero tú ten cuidado... (Vuelven a hacer el amor. Se queda unos segundos inmóviles, en silencio con los ojos abiertos, luego empieza a mover nerviosa un pie en el suelo. Mira a su compañero imaginario y le susurra con voz llena de aprensión.) ¡Ten cuidado! (Con otro tono.) ¡¡¡Que tengas cuidado!!! (Molesta.) ¡Que no, que no puedo! Esto del embarazo me ha helado la sangre en las venas... ¿El diafragma? Sí, lo uso, pero tú no me habías dicho que hoy..., además, esa goma en la tripa no me gusta nada, me da mucha grima..., me parece como si tuviera chicle en el vientre". Fuente: Cactus cultural UTE
Imagen de la red.
La Conciencia de las Palabras
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Mean Girls (2024)
Cady Heron è un'adolescente semplice e genuina, cresciuta in Kenya dalla madre ricercatrice che l'ha istruita in casa. Ora finalmente Cady riesce a frequentare un normale liceo, ma non è il paradiso che immaginava, bensì un microcosmo popolato da cricche rivali: gli atleti, i nerd (o "matleti"), e soprattutto le Plastic, tre ragazze iper popolari capitanate dalla "predatrice dominante" Regina George. Inizialmente Cody viene accolta dalle Plastic, ma quando Regina si accorge che la nuova arrivata è attratta (e forse anche ricambiata) da Aaron, l'ex della "predatrice", parte al contrattacco. Alle sue azioni ostili rispondono Cady e i suoi due amici "sfigati", la ribelle Janis e il gay Damian, che imbastiscono una vendetta nei confronti di Regina. Ma l'ascesa di Cady nei ranghi del microcosmo liceale avrà il suo lato oscuro e coinvolgerà l'intera scolaresca in una battaglia per la popolarità che ha molto a che fare con l'insicurezza dell'età adolescente e che riguarda, o quantomeno ha riguardato, quasi tutti noi.
Questo Mean Girls è il remake, a distanza di vent'anni esatti, della commedia omonima del 2004, diventata un cult in tutto il mondo e già oggetto di un sequel, Mean Girls 2, nel 2011.
La sceneggiatura, come quella originale, è firmata dall'attrice e autrice comica Tina Fey, che riprende anche il ruolo della professoressa Norbury, e segue esattamente la stessa trama, aggiungendo però alcune novità: molti numeri cantanti e ballati, dato che, oltre che al film originale, questo Mean Girls attinge anche al musical di Broadway che ne è scaturito nel 2017; una maggiore attenzione all'inclusività, rendendo ad esempio Janis ispanico-hawaiana, Damian afroamericano, e la Plastic Karen angloindiana; rinominando la cricca delle ragazze popolari Plastics, appunto, invece di Barbie, alla luce del successo planetario del film di Greta Gerwig; aggiungendo alcune guest star nei ruoli chiave dell'allenatore Carr (Jon Hamm), della madre di Cady (Jenna Fischer) e di quella di Regina (Busy Philipps); e inserendo i social media e le nuove tecnologie nella fibra della sceneggiatura e della cinematografia.
Il problema è proprio quello di aver voluto rimettere mano a un cult movie senza aggiungere molto altro che questi accorgimenti, dei quali gli unici interessanti sono l'introduzione delle canzoni e dei balletti, ben interpretati e coreografati, e la scelta di affidare il ruolo di Regina, nel film originale incarnata memorabilmente da Rachel McAdams con la perfida delle piccolette ambiziose, dalla giunonica Reneé Rapp, già protagonista in questo ruolo nel musical teatrale, che conferisce al suo personaggio un'aura da bulla fisicamente minacciosa, e contrasta lo stereotipo della bella della scuola filiforme, lanciando un'implicita frecciata al body shaming.
Ma non basta ricalcare la trama e alcune battute iconiche del film originale per giustificare questo remake che sembra la copia sbiadita del suo predecessore, perché ne edulcora la cattiveria del titolo e trasforma un archetipo cinematografico in un adattamento che sembra pronto per il piccolo schermo (infatti era inizialmente previsto come contenuto per la piattaforma, solo dopo si è deciso di mostrarlo anche nelle sale cinematografiche). Anche l'inserimento nel cast di alcuni volti televisivi (ad esempio Bebe Wood nel ruolo della fragile Gretchen e Christopher Briney in quello di Aaron) denuncia una vocazione da visione domestica più che da grande schermo.
Peccato, perché il senso di un'operazione del genere poteva essere quello di rivoluzionare l'originale rendendolo più aderente alla contemporaneità, non solo con piccoli accorgimenti di superficie ma con una vera riscrittura che includesse tutte le ambiguità di quella political correctness che l'originale allegramente ignorava: qualcosa come la commedia Bottoms, che davvero ha cercato di capovolgere i topos del genere.
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Antonio Tabucchi (Pisa, 24 settembre 1943 – Lisbona, 25 marzo 2012), è stato uno scrittore e accademico italiano, docente di lingua e letteratura portoghese all'Università di Siena; è considerato il maggior conoscitore, critico e traduttore di Fernando Pessoa, scrittore proprio in ragione del quale, per meglio comprenderne la poetica, Tabucchi aveva imparato il portoghese dalla moglie Maria Josè de Lancastre, nata e cresciuta in Portogallo.
I suoi libri e saggi sono stati tradotti in oltre 18 lingue, compreso il giapponese. Con Maria José de Lancastre, sua moglie, ha tradotto in italiano molte delle opere di Fernando Pessoa, ha scritto un libro di saggi e una commedia teatrale su questo grande scrittore. Ha ottenuto il premio francese "Médicis étranger" per *Notturno indiano* e il premio Campiello per *Sostiene Pereira*.
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Compagni di teatro all'opera
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Il Nome del Figlio – Le Prénom: Una Commedia Brillante per Festeggiare i 30 Anni di Agorà Teatro. Dal 26 ottobre all'8 novembre 2024, il Piccolo Teatro di Bari ospita la celebre commedia "Il Nome del Figlio – Le Prénom" per celebrare i 30 anni di Agorà – Teatro e Cultura
Il 2024 segna un traguardo speciale per Agorà – Teatro e Cultura, che festeggia i suoi 30 anni di attività con una delle commedie più amate dal suo pubblico: Il Nome del Figlio – Le Prénom. Questo capolavoro di Matthieu Delaporte e Alexandre De la Patelli
Il 2024 segna un traguardo speciale per Agorà – Teatro e Cultura, che festeggia i suoi 30 anni di attività con una delle commedie più amate dal suo pubblico: Il Nome del Figlio – Le Prénom. Questo capolavoro di Matthieu Delaporte e Alexandre De la Patellière, reso celebre anche dal cinema, sarà in scena al Piccolo Teatro di Bari il 26 ottobre, 27 ottobre e 8 novembre 2024. Una Commedia Brillante…
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Alto Bordo
Come mi ero promesso, ogni trimestre sto recuperando un classico in lettura. Martedi ho finito di leggere La Signora Delle Camelie di Alexandre Dumas Figlio. Pubblicato nel 1848, capolavoro della letteratura dell'Ottocento, Dumas racconta la storia d'amore tra Marguerite Gautier e Armand Duval, un affresco incredibile, e dai tratti molto moderni (soprattutto per quanto riguarda il carattere e le idee di Gautier, tanto che all'epoca fece scandalo e trascinò il romanzo ad un tumultuoso successo) di quel demi monde del tempo, cioè un ambiente sociale corrotto e che ostenta gli atteggiamenti propri di un ceto elevato (lo stesso Dumas scrisse una commedia nel 1855 dallo stesso titolo, e fu lui l'inventore di questo termine).
Più che la storia, celeberrima anche perchè Dumas ne ricavò un'opera teatrale in 5 atti e Giuseppe Verdi ne musicò una versione su libretto di Francesco Maria Piave, La Traviata (1853 la prima rappresentazione) considerata il suo capolavoro e che fu tratta direttamente dalla trasposizione teatrale di Dumas e da allora una delle opere liriche più famose e rappresentate del mondo, c'è un particolare meno noto.
A fine libro Dumas scrive: "...scrissi questa storia esattamente come mi era stata raccontata. Essa ha un solo merito che le sarà contestato, quello di essere vera". Non è solo un espediente narrativo, ma è davvero la realtà: Dumas infatti si ispirò alla sua relazione con Marie Duplessin per il personaggio di Marguerite. Eccola in un bellissimo quadro dell'artista Édouard Vienot
Nata poverissima in Normandia, fu presto abbandonata dalla madre. Il suo vero nome era Alphonsine Rose Plessis, e quando arrivò giovanissima a Parigi, lavorando come sarta, un negoziante, per cui lei lavorava, nel 1839, quando ha solo 15 anni, diviene il suo primo amante. Inizia così una scalata sociale incredibile, in pochi mesi diviene l'amante di personaggi sempre più illustri e la protagonista delle serate mondane parigine. Cambia nome in Marie Duplessis, in cui l'aggiunta del du al cognome d'origine, conferisce un tocco aristocratico, impara non solo a leggere e scrivere (arriverà ad avere una biblioteca enorme) ma anche a suonare il pianoforte, diviene l'amante di uno dei più potenti aristocratici parigini, e fece scandalo incredibile la sua relazione con Agénor de Gramont duca di Guichem, che innamorato pazzo di lei si fa vedere ovunque con Marie, tanto che la famiglia, scandalizzata dalla frequentazione di tale personaggio, gli impone di lasciare Parigi. Con Dumas, ebbe una relazione di circa un anno, dal settembre 1844 all'agosto 1845. Alexandre e Marie trascorrono un periodo insieme in campagna a Saint-Germain-en-Laye, un piccolo comune dell'Ile de France a poca distanza da Parigi (episodio che verrà replicato identico nel libro, quando Armand e Marguerite vanno a Bougival, paesino che diventerà una sorta di mito dei dintorni di Parigi per il romanzo e perché buen ritiro dei maggiori pittori impressionisti). Dumas la lascia con una famosa lettera, che esiste ancora, dopo l'ennesimo tradimento. Tra gli amanti famosi, anche il compositore Franz Listz, il conte svedese von Stakelberg, ambasciatore a San Pietroburgo e il conte Édouard de Perrégaux col quale convola a nozze a Londra nel 1846. Travolta dai debiti e soprattutto debilitata dalla tisi, muore il 3 febbraio 1847. Ai suoi funerali partecipa una folla enorme e la vendita all'incanto dei suoi beni, disposta per risarcire i numerosi creditori, vedrà i partecipanti strapparsi di mano, con morbosa attrazione, gli oggetti andati all'asta, e tra i pezzi forti le opere prime di famosi romanzi dell'epoca firmati per lei dai più grandi autori (anche questo fatto ripreso pari pari nel romanzo). Aveva passione per i gioielli, per le stole di pellicce, per i cavalli e soprattutto per le camelie, sempre presenti nel suo appartamento: spesso rosa e bianche, rosse quando non poteva ricevere i suoi amanti.
Marie Duplessis è la più famosa delle lorette: il termine fu coniato dal giornalista Nestor Roqueplan in un articolo del 20 Gennaio del 1841 su uno dei primi giornali autoprodotti, una cosiddetta Nouvelles à la main, che aveva indicato le cortigiane con un certo gusto e stile con questo termine, preso in prestito dalla Chiesa della Madonna di Loreto (Notre Dame De Lorette, nel IX arrondissement.
Lì si radunavano le giovani donne con stile, che si contrapponevano alle grisette (le sartine), che popolavano il quartiere latino, che erano ragazze che vivevano fuori dalla famiglia che accettavano regali dagli uomini di ceto sociale più elevato, senza necessariamente prostituirsi: grisette deriva da quello di una stoffa adatta da lavoro, con la quale si confezionavano vestiti di basso valore, spesso di colore grigio. È interessante come dei toponimi indicassero in maniera elegante un mestiere che sebbene all'epoca niente affatto scandaloso, veniva "nascosto" perchè in società non si poteva dire.
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Tre anni fa, il 2 novembre 2020, moriva (nel giorno del suo ottantesimo compleanno) il grande attore, cabarettista, doppiatore, conduttore e regista, interprete di film quali La mortadella di Mario Monicelli, La Tosca di Luigi Magni, L’eredità Ferramonti di Mauro Bolognini, Febbre da cavallo di Steno, Casotto di Sergio Citti, Un matrimonio di Robert Altman ed altri. Nato a Roma nel 1940, grandissimo attore di teatro, dove spazia dai monologhi alle commedie musicali, incontra un grande successo in televisione, riproponendo sul piccolo schermo i suoi spettacoli più riusciti. Fin da ragazzo suona vari strumenti (chitarra, pianoforte, fisarmonica, contrabbasso) e canta nelle feste studentesche e nei bar all’aperto. Si iscrive al Centro Teatro Ateneo, in cui insegnano attori quali Giancarlo Sbragia e Arnoldo Foà, e in seguito frequenta il corso di mimica di Giancarlo Cobelli, che nota le sue qualità e lo scrittura per un suo spettacolo d’avanguardia, Can Can degli Italiani (1963), che segnerà il debutto teatrale del giovane Proietti. Negli anni successivi lo troviamo in ruoli secondari con vari gruppi teatrali: in Il mercante di Venezia (1966) di Ettore Giannini, e, con il Gruppo Sperimentale 101 Le mammelle di Tiresia (1968) di Guillaume Apollinaire; Nella giungla delle città (1968) di Bertolt Brecht, Coriolano (1969) di William Shakespeare, Il dio Kurt (1969) di Alberto Moravia, e altre opere, fino al primo grande successo, quando viene inaspettatamente chiamato a sostituire Domenico Modugno nella commedia musicale di Garinei e Giovannini Alleluja brava gente. A seguire il dramma di Sam Benelli La cena delle beffe (1974), con Carmelo Bene; nel ’76 A me gli occhi, please, considerata una fra le sue prove teatrali più riuscite, e che sarà riportata in scena con grande successo nel ’93, ’96 e, nel 2000, al Teatro Olimpico. Nel ’78, con Sandro Merli, diventa direttore artistico del Teatro Brancaccio di Roma, dove crea un suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche per i giovani attori che rappresenterà un vero trampolino per volti noti dello spettacolo (Flavio Insinna, Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Francesca Reggiani e molti altri). Segue una serie di performances, fra cui Il bugiardo di Carlo Goldoni (1980, regia di Ugo Gregoretti), Edipo re di Sofocle (1981, regia di Vittorio Gassman), I sette re di Roma di Luigi Magni (1989, regia di Pietro Garinei), e altre per le quali, oltre a recitare, cura anche la regia, come Caro Petrolini (1979), Cyrano de Bergerac (1985), Liolà di Luigi Pirandello (1988), Guardami negli occhi (1989) e La pulce nell’orecchio (1991) di Georges Feydeau, Socrate (2000, adattamento di Vincenzo Cerami dai Dialoghi di Platone), Full Monty (2001, versione teatrale del film omonimo del ’97), Io, Toto e gli altri (2002, ripreso quattro anni dopo), e molti altri. A partire dagli anni Ottanta ha diretto anche alcune opere liriche: Tosca di Giacomo Puccini nel 1983, Don Pasquale di Gaetano Donizetti nel 1985, Falstaff e Nabucco di Giuseppe Verdi (rispettivamente nel 1985 e nel 2009), Le nozze di Figaro e Don Giovanni (nel 1986 e nel 2002) di Wolfgang Amadeus Mozart, Carmen di Georges Bizet nel 2010. Istrionico, grande improvvisatore, dotato di un’ottima voce e molto audace negli sperimentalismi, al cinema lo ricordiamo nel ruolo del fidanzato di Sophia Loren nel farsesco La mortadella (1971) di Mario Monicelli, ironico protagonista del musicale Tosca (1973) di Luigi Magni, in cui recita con Monica Vitti, interprete del giovane Pippo nel calligrafico L’eredità Ferramonti (1976) di Mauro Bolognini, stallone da quattro soldi nel cinico Casotto (1977) di Sergio Citti, fanfarone nel satirico Un matrimonio (1978) di Robert Altman, in cui recita con Vittorio Gassman. A partire dalla fine degli anni Ottanta dirada notevolmente le sue apparizioni cinematografiche per proseguire l’attività teatrale e quella televisiva, dove ottiene grande successo con le serie Il Maresciallo Rocca (1996-2004) e L’avvocato Porta (1997-98).
Fra gli altri film ricordiamo Se permettete parliamo di donne (1964) di Ettore Scola, Le piacevoli notti (1966) di Armando Crispino e Luciano Lucignani, La ragazza del bersagliere (1967) di Alessandro Blasetti, Lo scatenato (1967) di Franco Indovina, La matriarca (1968) di Pasquale Festa Campanile, Una ragazza piuttosto complicata (1969) di Damiano Damiani, La virtù sdraiata (1969) di Sidney Lumet, tratto dal libro omonimo di Antonio Leonviola ed interpretato da Anouk Aimée, Omar Sharif, Didi Perego, Fausto Tozzi e Lotte Lenya (la grande attrice di teatro austriaca, vedova del musicista e compositore Kurt Weill ed interprete di Jenny nella prima rappresentazione di L’opera da tre soldi – 1929 – di Bertolt Brecht), Brancaleone alle crociate (1970) di Mario Monicelli, Bubù (1971) di Mauro Bolognini, Gli ordini sono ordini (1972) di Franco Giraldi, Meo Patacca (1972) di Marcello Ciorciolini, La proprietà non è più un furto (1973) di Elio Petri, con Flavio Bucci, Daria Nicolodi, Ugo Tognazzi e Salvo Randone, Le farò da padre (1974) di Alberto Lattuada, Musica per la libertà (1975) di Luigi Perelli, Bordella (1976) di Pupi Avati, Chi dice donna dice donna (1976) di Tonino Cervi, Febbre da cavallo (1976) e Mi faccia causa (1985) di Steno, Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa (1978) di Ted Kotcheff (il futuro regista di Rambo), Due pezzi di pane (1979) di Sergio Citti, Non ti conosco più amore (1980) di Sergio Corbucci, Di padre in figlio (1982) di Vittorio Gassman, FF. SS.” – Cioè: “che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene? (1983) di Renzo Arbore, Eloise, la figlia di D’Artagnan (1994) di Bertrand Tavernier, Panni sporchi (1998) di Mario Monicelli, Tutti al mare (2011) di Matteo Cerami, Indovina chi viene a Natale? (2013) di Fausto Brizzi, Alberto il grande (2014) di Carlo e Luca Verdone, Il premio (2017) di Alessandro Gassman, Pinocchio (2019) di Matteo Garrone. Ha doppiato attori quali Marlon Brando - in Riflessi in un occhio d’oro (1967) di John Huston, Richard Burton - Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966) di Mike Nichols -, Alex Cord - I cinque disperati duri a morire (1970) di Gordon Flemyng - , Kevin Costner - Attraverso i miei occhi (2019) di Simon Curtis - , Robert De Niro - Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (1972) di Martin Scorsese, Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan, Casinò (19959 di M. Scorsese - , Ray Danton - Agente speciale L.K. Operazione Re Mida (1967) di Jesus Franco - , Kirk Douglas - Uomini e cobra (1970) di Joseph L. Mankiewicz -, Henry Fonda - L’ora della furia (1968) di Vincent McEveety -, Richard Harris - Camelot (1967) di Joshua Logan, Un uomo chiamato cavallo (1970) di Elliott Silverstein -, Charlton Heston - 23 pugnali per Cesare (1970) di Stuart Burge, Hamlet (1996) di Kenneth Branagh -, Dustin Hoffman - Lenny (1974) di Bob Fosse -, Anthony Hopkins - Hitchcock (2012) di Sacha Gervasi -, Rock Hudson - I due invincibili (1969) di Andrew V. McLagen -, Dean Jones - Tutti i mercoledì (1966) di Robert Ellis Miller -, Paul Newman - Buffalo Bill e gli indiani (1976) di Robert Altman - , Michael Pate - Il ritorno del pistolero (1966) di James Neilsen -, Gregory Peck - La notte dell’agguato (1969) di Robert Mulligan -, Michel Piccoli - Diabolik (1968) di Mario Bava -, Jean Reno - I visitatori (1993) di Jean-Marie Poiré -, George Segal - Gioco senza fine -, Dick Shawn - Per favore, non toccate le vecchiette (1967) di Mel Brooks - , Robert Stack - Il più grande colpo del secolo (1967) di Jean Delannoy -, Sylvester Stallone - Rocky (1976) di John G. Avildsen, F.I.S.T. (1978) di Norman Jewison -, Benito Stefanelli - I giorni dell’ira (1967) di Tonino Valerii -, Donald Sutherland - Il Casanova di Federico Fellini (1976) di Federico Fellini. A teatro, a partire dagli anni Sessanta, recita in decine di pièces e, dal decennio successivo, dirige varie opere ed opere liriche. In televisione appare anche in vari film tv - La maschera e il volto
(1965) di Flaminio Bollini, La fantastica storia di Don Chisciotte della Mancha (1970) di Carlo Quartucci, Romanzo popolare italiano (1975) e Viaggio a Goldonia (1982) di Ugo Gregoretti, Fregoli (1981) di Paolo Cavara, Gli innocenti vanno all’estero (1983) di Luciano Salce, La bella Otero (1984) di José Maria Sanchez, Io a modo mio (1985) di Eros Macchi, Sogni e bisogni (1987) di Sergio Citti, Un figlio a metà (1992) e Un figlio a metà - Un anno dopo (1994) di Giorgio Capitani, Mai storie d’amore in cucina (2004) di G. Capitani e Fabio Jephcott, Il veterinario (2004) di J. M. Sanchez - ed in sceneggiati, serie e miniserie - I grandi camaleonti (1964) di Edmo Fenoglio, Il circolo Pickwick (19669 e Le tigri di Mompracem (1974) di Ugo Gregoretti, Il viaggio di Astolfo (1972) di Vito Molinari, Facciaffittasi (1987), Italian Restaurant (1994), Il signore della truffa (2011) di Luis Prieto, L’ultimo papa re (2013) di Luca Manfredi, Una pallottola nel cuore (2014-18). Nel 2018-19 ha partecipato a due puntate del programma documentaristico Ulisse - Il piacere della scoperta di Piero e Alberto Angela, e ad una puntata di Meraviglie - La penisola dei tesori di A. Angela.
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Oggi mi sento come comare Puridda (commedia teatrale siciliana) che quando si doveva alzare dalla sedia diceva "Ooooddiodiodiodio...Pi virtù du spiritu santu"😏
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Teatro e politica
È quanto meno singolare che non ci si interroghi sul fatto, non meno imprevisto che inquietante, che il ruolo di leader politico sia nel nostro tempo sempre più spesso assunto da attori: è il caso di Zelensky in Ucraina, ma lo stesso era avvenuto in Italia con Grillo (eminenza grigia del Movimento 5 stelle) e ancor prima negli Stati Uniti con Reagan. È certo possibile vedere in questo fenomeno una prova del tramonto della figura del politico di professione e dell’influsso crescente dei media e della propaganda su ogni aspetto della vita sociale; è però evidente in ogni caso che quanto sta avvenendo implica una trasformazione del rapporto fra politica e verità su cui occorre riflettere. Che la politica avesse a che fare con la menzogna è, infatti, scontato; ma questo significava semplicemente che il politico, per raggiungere degli scopi che riteneva dal suo punto di vista veri, poteva senza troppi scrupoli dire il falso.
Quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi è qualcosa di diverso: non vi è più un uso della menzogna per i propri fini politici, ma, al contrario, la menzogna è diventata in se stessa il fine della politica. La politica è, cioè, puramente e semplicemente l’articolazione sociale del falso. Si capisce allora perché l’attore sia oggi necessariamente il paradigma del leader politico. Secondo un paradosso che da Diderot a Brecht ci è diventato familiare, II buon attore non è, infatti, quello che si identifica appassionatamente nella sua parte, ma colui che, conservando il suo sangue freddo, la tiene per così dire a distanza. Egli sembrerà tanto più vero, quanto meno nasconderà la sua menzogna. La scena teatrale è, cioè, il luogo di un’operazione sulla verità e sulla menzogna, in cui si produce il vero esibendo il falso. Il sipario si solleva e si chiude proprio per ricordare agli spettatori l’irrealtà di quanto stanno vedendo.
Quel che definisce oggi la politica – divenuta, com’è stato efficacemente detto, la forma estrema dello spettacolo – è un inedito capovolgimento del rapporto teatrale fra verità e menzogna, che mira a produrre la menzogna attraverso una particolare operazione sulla verità. La verità, come abbiamo potuto vedere in questi ultimi tre anni, non viene, infatti, occultata e resta anzi facilmente accessibile a chiunque abbia voglia di conoscerla; ma se prima – e non soltanto a teatro – si raggiungeva la verità mostrando e smascherando la falsità (veritas patefacit se ipsam et falsum), ora si produce invece la menzogna per così dire esibendo e smascherando la verità (di qui l’importanza decisiva del discorso sulle fake news). Se il falso era un tempo un momento nel movimento della verità, ora la verità vale soltanto come un momento nel movimento del falso.
In questa situazione l’attore è per così dire di casa, anche se, rispetto al paradosso di Diderot, deve in qualche modo raddoppiarsi. Nessun sipario separa più la scena dalla realtà, che – secondo un espediente che i registi moderni ci hanno reso familiare, obbligando gli spettatori a partecipare alla recita. – diventa essa stessa teatro. Se l’attore Zelensky risulta così convincente come leader politico è proprio perché egli riesce a proferire sempre e dovunque menzogne senza mai nascondere la verità, come se questa non fosse che una parte inaggirabile della sua recita. Egli –come del resto la maggioranza dei leader dei paesi della Nato – non nega il fatto che i russi abbiano conquistato e annesso il 20 % per cento del territorio ucraino (che del resto è stato abbandonato da più di dodici milioni dei suoi abitanti) né che la sua controffensiva sia completamente fallita; nemmeno che, in una situazione in cui la sopravvivenza del suo paese dipende in tutto e per tutto da finanziamenti stranieri che possono cessare da un momento all’altro, né lui né l’Ucraina hanno davanti a sé alcuna reale possibilità. Decisivo è per questo che, come attore, Zelensky provenga dalla commedia. A differenza dell’eroe tragico, che deve soccombere alla realtà di fatti che non conosceva o che credeva non reali , il personaggio comico fa ridere perché non cessa di esibire l’irrealtà e l’assurdità delle sue stesse azioni. L’Ucraina, un tempo chiamata la Piccola Russia, non è però una scena comica e la commedia di Zelensky non potrà in ultimo che convertirsi in un amara, realissima tragedia.
19 gennaio 2024
Giorgio Agamben
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